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Umanizzazione

Umanizzazione della terapia intensiva in un ospedale inglese

L’infermiera italiana Valentina Mirto ci racconta la sua esperienza di umanizzazione e di lotta alla sindrome da post terapia intensiva

Qualche giorno fa, ricevo nel gruppo Facebook “storie di terapia intensiva”, un commento di una collega infermiera italiana (Valentina Mirto) che lavora nel Regno Unito e che racconta di come, da qualche mese, faccia parte di un team che si occupa della presa a carico di pazienti che sono passati in terapia intensiva e di umanizzazione della terapia intensiva. In particolare si occupa di persone a rischio di sviluppare una sindrome da post terapia intensiva.

Alla fine del suo commento scrive:

Mi piacerebbe un giorno poter tornare in Italia e portare quello che ho imparato qui in termini di riabilitazione psico-fisica e umanizzazione della terapia intensiva dopo la terapia intensiva…

Non potevo certo non chiederle un’intervista per capire cosa gli infermieri fanno nel Regno Unito che noi non facciamo e che a Valentina piacerebbe importare (o esportare, a seconda dei punti di vista).

Ciao Valentina, raccontami dove lavori e di cosa ti occupi

Sono senior staff nurse nella terapia intensiva del Royal Berkshire NHS Foundation Trust, e da qualche mese collaboro con il ”recovery after criticall illness team”:  un team che si occupa di persone in cui il ricovero in rianimazione ha causato una sindrome da post terapia intensiva (PICS). Il team è composto da due primari, tre infermiere (di cui una nurse consultant e due senior nurse), un fisioterapista.

Come avviene la presa a carico dei pazienti a rischio di sindrome da post terapia intensiva?

Il nostro team prende a carico i pazienti e le loro famiglie dal momento del ricovero in terapia intensiva fino a quando il paziente ne sente la necessità. L’umanizzazione della terapia intensiva avviene quindi sin da subito.

All’ingresso del paziente in reparto eseguiamo uno screening per capire qual è il rischio di sviluppare una sindrome da post terapia intensiva.

Nel momento in cui i pazienti vengono dimessi dalla terapia intensiva, viene redatta una lista in cui vengono inseriti tutti i pazienti che soddisfano i requisiti del servizio di riabilitazione. Questi vengono quindi seguiti in reparto sia da un fisioterapista che da una senior nurse, fino alla dimissione dall’ospedale.

Se i pazienti vengono dimessi presso centri terziari specialistici o centri di riabilitazione, il follow up prosegue telefonicamente con lo staff della struttura fino alla dimissione verso il luogo di residenza.

Quando i pazienti tornano alla propria abitazione, inviamo loro una lettera con un questionario (trauma screen questionare) per capire quanto la terapia intensiva abbia influito sulla loro qualità di vita e di quale tipo di supporto possano aver bisogno.

Quali sono i servizi che offrite?

I servizi principali che offriamo sono un servizio di follow up integrato che coinvolge in primis il nostro team e si espande ad altre specializzazioni a seconda della necessita’ del paziente ed i patient support groups.

Inoltre nel nostro reparto viene usato un “All about me file” (poster/file narrativo):  una cartellina  custodita nel file del paziente in cui i familiari scrivono informazioni sulla vita della persona ricoverata, i loro hobbies, le cose che li rendono felici e quelle che invece li fanno sentire demotivati.

Trovo questa cosa fenomenale perché permette di conoscere la persona dietro la malattia.

Molte volte, ad esempio, mi è capitato di seguire pazienti in stato di delirium o confusi e sapere cosa a loro piace e cosa li calma, può dare una grande aiuto e sostituisce perfino i medicinali usati per calmarli! Inoltre aiuta a creare una relazione terapeutica tra curante e paziente dove il paziente comincia a fidarsi della persona che se ne prende cura.

Come avviene il servizio di follow up?

Quando il paziente lascia la terapia intensiva e viene trasferito in reparto, vado a trovarli settimanalmente, organizzo incontri con le loro famiglie e mi è capitato spesso di ricevere telefonate dallo staff di reparto per chiedermi se avessi tempo per consulenze urgenti.

Dopo essermi presentata ed aver spiegato il ruolo che ricopro, in genere chiedo: ”Come stai?”. Spesso dopo questa semplice domanda si apre un mondo, dove esce tutta la fragilità della persona che diventa un fiume in piena.

 Chiedo poi cosa la persona ricorda del ricovero in terapia intensiva, se hanno incubi, flashback, pensieri intrusivi.

Quasi sempre vogliono sapere cosa sia accaduto in terapia intensiva durante il periodo in cui erano incoscienti. Lascio quindi loro una copia del loro ”discharge summary” : un documento che contiene tutti i passaggi del loro trattamento in terapia intensiva.

Spesso mi siedo accanto a loro e lo leggiamo assieme. Poi indago come il paziente vive da un punto di vista fisico: indago il lato nutrizionale, la fisioterapia, la terapia del dolore, controllo la ferita della cannula tracheostomica e le medicazioni di altri presidi (cateteri centrali, drenaggi, ecc.).

Mi “sposto” poi indagando il sociale: chiedo riguardo la famiglia e l’entourage.

Alle volte faccio cose che alle volte sembra esulino un po’ dal mio lavoro di infermiera di terapia intensiva.

Mi è capitato, ad esempio, di accompagnare un paziente a fare giardinaggio (abbiamo un piccolo garden terapy) o di accompagnarne altri a pranzo in un piccolo ristorantino interno, per dar loro modo di “prendere una boccata d’aria fresca” dopo mesi passati in ospedale o semplicemente per restituire un po’ di quel senso di umanita’ perduto durante il periodo di degenza.

Quando la persona viene dichiarata “medically fit for discharge” e torna al proprio domicilio, inviamo una lettera in cui lo invitiamo a partecipare al nostro servizio di supporto.

Al paziente vengono quindi offerti degli incontri dove, assieme al primario, ad una infermiera del team e ad un familiare, si discute di tutto ciò di cui il paziente vuole discutere: dai problemi psicologici ai problemi fisici.

Proponiamo incontri del genere una volta ogni due o tre mesi, ma diamo la possibilità alla persona in difficoltà di contattarci e di fissare incontri piu’ frequenti. Il nostro servizio ha “un’open door policy” e ci capita spesso che pazienti visti anni fa, chiamino per parlare o per consigliarsi. Non c’ è un tempo prestabilito per poter aderire al servizio.

…mi raccontavi che invitate il paziente a visitare nuovamente il reparto dove era ricoverato…

Se il paziente lo desidera e si sente pronto, lo riaccompagniamo a visitare la terapia intensiva ed il suo posto letto.

La persona può conoscere lo staff che si è preso cura di lui, rivedere il letto in cui era ricoverato, rivedere le macchine, il ventilatore, ascoltare i rumori e il suono degli allarmi che ha sentito mentre era sedato. Poi ci si siede insieme e gli si mostra tutti gli esami effettuati, gli aggiornamenti, le conversazioni con la famiglia ed i medicinali somministrati in modo tale da poter ricostruire quel percorso che nella loro memoria appare inizialmente come un buco nero fra i ricordi in quanto erano sedati.

Tante volte questo chiude un ciclo. Tutti i pazienti vogliono infatti sapere quello che accaduto durante il periodo in cui erano incoscienti e potrebbero aver bisogno di piu’ incontri se il loro status mentale non è pronto a sapere tutto in un solo incontro. Tanti pazienti piangono, altri restano senza parole, altri si meravigliano. Eppure un incontro del genere tende a risolvere tutti i loro problemi, o quasi.

Cosa sono e come si svolgono i patient support group?

I patient support groups sono degli incontri di dove i pazienti possono condividere le loro esperienze e non sentirsi soli nell’affrontare le problematiche del post terapia intensiva.

Vengono organizzati due o tre volte all’anno. Il tutto inizia con un caffè in compagnia tra ex pazienti che sono a buon punto nel loro percorso di guarigione ed il nostro team.

Il team illustra la PICS (sindrome da post terapia intensiva) ed i sintomi associati. I pazienti iniziano poi a parlare della loro esperienza, dei loro ricordi, dei loro progressi. È di fatto una chiacchierata conviviale e informale, che dà la possibilità a persone che hanno condiviso un percorso simile, di potersi confrontare ed anche consigliarsi.

È molto bello che le due “guide” siano due nostri ex pazienti che sono stati ricoverati nel nostro reparto circa undici anni fa e che hanno voluto fortemente questa attività.

Per molte persone che hanno vissuto la sindrome da post terapia intensiva, il potersi confrontare e parlare con altri che hanno vissuto un’esperienza simile, è di aiuto a sentirsi motivati, tranquillizzati e a progredire in un percorso di completa guarigione

Cosa ti dà questo lavoro così particolare da un punto di vista professionale e umano?

Il lavoro di umanizzazione della terapia intensiva non è un lavoro facile; entri nella vita delle persone e si creano relazioni che vanno al di la del lavoro e si protraggono nel tempo.

Diventi infatti il “collegamento” con uno dei periodi piu’ forti della vita di queste persone.

Tante persone si attaccano a te come se tu fossi l’unica persona che li conoscesse veramente perchè sanno che c’eri durante uno dei momenti peggiori della loro vita.

Bisogna però sempre ricordarsi di essere in una relazione di aiuto infermiere-paziente.

La gratificazione professionale e umana è altissima, tanto che vorrei aver iniziato tempo addietro.

Mi piacerebbe un giorno portare tutti questi insegnamenti nel nostro Paese, l’Italia, dove manca la cultura del post terapia intensiva e dove spesso l’umanizzazione della terapia intensiva non viene presa in considerazione.

Spesso la persona ammalata viene vista solo come malattia, e non sempre si ha la consapevolezza che dietro la malattia ci sia una persona e siamo noi infermieri a dover cambiare questo paradigma.


Per conoscere piu’ nel dettaglio la realtà in cui lavora Valentina Mirto quanto viene fatto nel Royal Berkshire NHS Foundation Trust è possibile visualizzare il sito www.readingicusupport.co.uk

Per ulteriori articoli sull’umanizzazione delle cure:

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Storie di terapia intensiva

“Dietro la maschera”: l’esperienza di un infermiere di terapia intensiva diventa romanzo

Il “racconto Covid” di Pasquale Dente, infermiere italiano in Inghilterra, diventa un romanzo

Conosco Pasquale Dente in un chat di infermieri e leggo che ha appena pubblicato un romanzo dal titolo “Dietro la maschera“, un romanzo reale che affonda le radici nella pratica clinica quotidiana della terapia intensiva Covid del John Radcliffe Hospital Oxford University.

Mi incuriosisco, faccio una veloce ricerca e contatto questo “infermiere-scrittore”. Voglio capire cosa questo infermiere ha da raccontare.

Pasquale è di Napoli e viene da Secondigliano: per molti solo un nome legato alla malavita.

Lui invece ha li’ le sue radici e nel breve colloquio virtuale in chat mi racconta quanto gli manca la propria terra e quanto vorrebbe tornarci.

Poi parliamo un pochino del suo libro e gli chiedo di scrivere un articolo per raccontare a postintensiva.it del suo progetto.

La condivisione delle esperienze non deve riguardare solo le persone ricoverate, ma anche noi infermieri. L’introspezione di un collega, anche attraverso un romanzo, puo’ aiutare ognuno di noi ad affrontare la propria quotidianità.

Al termine dell’articolo di Pasquale il link tramite cui acquistare il libro.


Chi sono

Mi chiamo Pasquale Dente, sono Napoletano ma lavoro da 5 anni presso la terapia intensiva cardiotoracica della Oxford University, che durante la pandemia, e anche tuttora lo è, è diventata terapia intensiva covid.

Mi piace molto leggere e mi diletto a scrivere, sono stato agonista e cintura nera secondo Dan di Judo, e anche se non pratico da anni, mi è rimasta l’indole di affrontare i problemi faccia a faccia, cercando di risolverli in maniera adeguata. 

Arriva il Covid

Quando sono entrato per la prima volta nel mio reparto, diventato Covid dopo qualche mio giorno di assenza, mi sono sentito in un mondo nuovo, del tutto diverso da quello super organizzato in maniera anche quasi maniacale in cui lavoro.

Ho subito pensato di scrivere quello che i miei occhi vedevano, solo in un secondo momento ho costruito una storia attorno a fatti realmente accaduti e fatti di cronaca, inventando personaggi che possono essere tranquillamente i nostri colleghi, amici o parenti.

Dietro la maschera

Il libro racconta la storia di Lucia, un’infermiera napoletana che lavora a Bergamo in un reparto di Terapia Intensiva.

La ragazza, giovane e bella si trova a combattere contro tutto in piena solitudine, lontano dai propri affetti, dagli amori e dalla famiglia.

Il romanzo è incentrato molto sulla figura della protagonista.

Da qui il titolo “Dietro la Maschera” . Cosa c’è dietro la maschera? Cosa si nasconde? Eroi? Paladini del bene? Oppure professionisti della salute che hanno studiato per fare ciò?

Persone con paure e delusioni, individui che hanno famiglie alle loro spalle che sono anche esse in ansia per tutto ciò.

La pagina Istragram @Dietrolamascheralibro

Prima della pubblicazione del libro stesso, ho aperto una pagina istagram @Dietrolamascheralibro su cui pubblico foto di colleghi con la maschera e senza, creando il contrasto tra quello che è il professionista, e quello che è la persona, aggiungendo anche una breve descrizione, sugli hobby e sulla famiglia, se sono mamme o papà, il tutto l’ho chiamato progetto “Dietro la maschera” .

Dove acquistare il libro

Il libro è acquistabile in versione cartacea, ebook ed è gratuito per i possessori si Kindle Unlimited.

Ecco il link di amazon per l’acquisto del libro e di istagram.https://www.amazon.it/Dietro-maschera-Pasquale-Dente/dp/B08PG65HMC/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&crid=2HLOQM6OQLM6T&dchild=1&keywords=dietro+la+maschera&qid=1609204018&sprefix=dietr%2Caps%2C170&sr=8-1


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Il diario paziente

Il diario paziente in terapia intensiva e la relazione di cura

Il diario paziente: la relazione messa per iscritto

“Buon giorno sig. Giovanni, mi chiamo Sergio e sono l’infermiere che si occupa di lei questa mattina. Le scrivo questo diario perché le sue condizioni hanno spinto i medici a somministrare dei sedativi… in altre parole lei si trova in coma farmacologico e quando si sveglierà (speriamo fra pochi giorni) non avrà memoria di quanto le è accaduto e di come avrà vissuto queste giornate. Cosi’ ho deciso di scrivere questo diario in cui le racconto quanto accade….”

E’ con parole simili a queste che spesso si inizia una diario paziente nella nostra terapia intensiva.

L’inizio turno

L’infermiere inizia il turno di mattina, ancora assonnato “prende consegna” e si dirige verso questo signore sconosciuto, di cui ha poc’anzi ascoltato la storia clinica.

Lo guarda, lo osserva…. Quando osserviamo qualcuno per la prima volta proviamo delle sensazioni: ha un viso simpatico, è brutto, è bello… L’infermiere raccoglie quelle sensazioni… Quasi sempre ha un istinto di protezione; quasi paterno. Il paziente è gonfio, respira grazie a con un tubo in bocca che gli deforma l’espressione…sembra quasi che rida da un lato. L’uomo è collegato a vari macchinari, di cui l’infermiere ben conosce il funzionamento e le proprietà terapeutiche.

Iniziano le cure

Iniziano le cure del mattino…L’infermiere controlla tutto: imposta gli allarmi del monitoraggio, controlla i farmaci spinti da sofisticate pompe infusionali…Controlla le funzioni vitali, anche quelle piu’ basilari: gli atti respiratori, la frequenza del cuore, l’urina, la digestione…. Neanche di un neonato si contano gli atti respiratori!!! In terapia intensiva si’! L’uomo è talmente annichilito che gli serve un infermiere per contare e controllare gli atti respiratori.

Iniziano i lavori di routine… L’infermiere prende una bacinella o delle salviette umide e inizia a lavare lo sconosciuto… L’ha visto per la prima volta mezz’ora fa e ora lo lava. C’è qualcosa di evangelico in tutto questo? No, forse c’è solo qualcosa di umano. L’infermiere prende la mano dell’uomo e lava, poi le braccia, il torace, l’addome, gli arti inferiori….Addirittura le parti intime.

Il dialogo

L’uomo, anche se addormentato, risponde. Gli si alza un po’ la pressione, la frequenza cardiaca. Quando viene girato tossisce e smuove le secrezioni. L’infermiere introduce un sondino nel tubo che esce dalla bocca e aspira il catarro. E tutto questo porta a una reciproca conoscenza. L’infermiere impara che il “suo” paziente (e si’, perché poi il paziente diventa una proprietà) è “sensibile” agli spostamenti, che ha catarro e ha bisogno di essere aspirato.

Arriva poi il momento della visita medica. Il medico chiede all’infermiere come si è “comportato” il paziente. Come si puo’ comportare una persona in coma? In realtà il medico vuole sapere come sono stati i suoi parametri vitali, se i farmaci prescritti hanno avuto effetto, se la febbre sta passando. L’infermiere risponde a tutte le domande e torna dall’uomo. Mette in atto i cambiamenti decisi durante la visita.

La famiglia

“Sergio, c’è al telefono la moglie del sig. Giovanni che vuole avere informazioni”… All’università si parla di privacy, ti dicono di non dare notizie al telefono… Ma loro che ne sanno di Giovanni e di sua moglie? Poi allora, visto che gli infermieri sono “codardi”, passa la telefonata al medico. Perché per il medico la privacy non vale…Ma prima pero’ l’infermiere chiede alla moglie qualcosa dell’uomo…. “Che lavoro faceva prima della pensione? Cosa gli piace fare? Ascolta musica? Di che tipo?”…. e poi ancora… “Avete nipoti? Che età hanno?”…. E la signora moglie si lancia…. Una timida risposa diventa un fiume.

La relazione

L’infermiere torna da Giovanni, prende lo smartphone (non si potrebbe usare il telefono in ospedale), apre youtube e sceglie una canzone di Vasco. Appoggia il telefono sul cuscino cosi’ che Giovanni possa ascoltare.

“…sa, anche se ci conosciamo da poco, mi sembra di conoscerla da molto… So che faceva il meccanico d’auto e aveva una passione per le auto d’epoca. Mi hanno detto che è appassionato di montagna e che amava fare delle belle passeggiate. Sono qui assieme agli altri infermieri e ai dottori per fare in modo che possa tornare presto alle sue passeggiate…non scali l’Everest pero’!!!

Poco fa l’ho girata nel letto in direzione della finestra. Sembrava contento. Ha infatti un viso rilassato. Spero che gradisca la musica di Vasco…”


Postintensiva.it è un portale creato da infermieri che operano nelle terapie intensive. Si occupa di umanizzazione delle cure e, fra le altre cose, promuove l’utilizzo del diario paziente come pratica di nursing narrativo.

Per ulteriori approfondimenti sulla tematica del diario paziente in terapia intensiva vai alla sezione dedicata.

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Storie di terapia intensiva

Racconti di terapia intensiva: la storia di Sabina

Sabina ha subito un ricovero in terapia intensiva dopo essere stata operata alla testa. Questo è il suo racconto di terapia intensiva.

Sabina ha inviato il suo racconto ad una suo amica tramite un messaggio whatsup.

Abbiamo il suo permesso per pubblicare il racconto di terapia intensiva con la convinzione che la condivisione del suo vissuto possa aiutare altri che stanno vivendo la stessa esperienza.

Nel racconto di terapia intensiva di Sabina emerge il problema della mancanza di ricordi e dell’amnesia.

Gli infermieri e i curanti devono essere consapevoli degli effetti che la sedazione ha sul lungo termine. Ridurre al minimo la sedazione delle persone ricoverate in terapia intensiva è una priorità.


Le mie memorie di terapia intensiva

Quel brutto mal di testa

Ricordo di essermi recata in pronto soccorso dopo circa una settimana di insistente mal di testa che non passava con nulla. Mi sentivo un po’ in imbarazzo di recarmi in pronto soccorso per un cosa che consideravo banale, ma che poi mi sarebbe costata tre mesi di ricovero.

L’ultimo mio ricordo è che mi trovavo in sala d’attesa e sono stata chiamata per eseguire una tac.

Poi il vuoto assoluto!!!!

Terapia intensiva: l’assenza di ricordi

Mi hanno raccontato che avevo perso conoscenza, che avevo subito un intervento alla testa e che ero stata in coma per alcuni giorni (credo otto).

Non ricordo nulla, nemmeno di aver visto i miei cari al risveglio o di aver sentito le loro voci.

Dicono che durante lo stato di coma si percepisca qualcosa…Io pero’ non ricordo assolutemente nulla.

Ho un vago ricordo dei giorni a seguire…. Sicuramente ricordo di essere stata legata mani e piedi per impedirmi di staccare le flebo e credo di aver chiesto ripetutamente di essere slegata.

Ricordo il via vai frenetico degli infermieri, il monitor della terapia intensiva scambiato per un televisore e ricordo di aver dato a qualcuno un elenco di cose da comprare.

Ero convinta di trovarmi in Spagna e non in un letto di ospedale.

Promettevo regali a tutti gli infermieri perchè inconsciamente mi sembrava di avere un debito verso di loro.

Non ricordo di aver visto nessuno dei miei cari: nè i miei figli, nè mio marito e nemmeno i miei genitori nonostante venissero a trovarmi tutti i giorni.

La ripresa…

Il mio primo ricordo effettivo risale a circa quindici giorni dopo quando sono stata trasportata nel reparto di chirurgia in attesa di passare alla riabilitazione per recuperare tutte le funzioni motorie che non sapevo piu’ gestire.

Un percorso lungo e faticoso costellato da paure altalenanti del futuro anche piu’ prossimo fino a rafforzarmi giorno per giorno riprendendo contatti con la vita.

Ricordo quel periodo come un buco nero caratterizzato dalla continua sensazione di non essere padrona di me stessa, ma in balia di infermieri e personale ospedaliero che si prendeva cura di me per tutto.


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Storie di terapia intensiva

Storie di terapia intensiva: la storia di Shara (seconda parte)

Pubblichiamo la seconda parte racconto di terapia intensiva di Shara… Continuano le allucinazioni e il delirium, poi finalmente il ritorno a casa.

Shara, nel suo racconto di terapia intensiva, ci parla della sua PICS (Post Intensive Care Syndrome) e delle problematiche che ha dovuto affrontare: difficoltà cognitive, psicologiche e fisiche.

Per leggere anche la prima parte della storia di Shara clicca sul seguente link.


Il delirium

E’ giunto un fattorino che porta le pizze per il personale dell’ospedale. Il mio fidanzato e mia figlia andavano via dopo essermi venuti a trovare e mi sentivo come se dovessi andare con loro. Mi sono sentita cosi’ abbandonata.

Mi sono messa a piangere e mi lamentavo con l’infermiera dicendo che loro mi avevano abbandonato e che dovevo andare a prendere il treno per andare a casa.

L’ospedale si è trasformato in una zona di guerra. E’ stata una scena terrificante vedere l’intero ospedale entrare in una zona di guerra con barelle e personale in fuga dappertutto, sentire spari ed elicotteri. Una donna dire al suo bambino :”Quello è l’uomo che ha sparato a tuo padre”.

Ho chiesto all’infermiera di accendere la tv sul canale per vedere cosa succede al di fuori.

A chi importava tutto questo? Mi hanno lasciato in questo ambiente violento. La rabbia e la depressione persistevano dopo che l’apparato respiratorio era stato rimosso.

Quando ho iniziato a uscire da questi pensieri deliranti avevo una nuova infermiera che mi parlava con una voce calma, e benchè non potessi vederla, lei è stata l’ultima a cercare di convincermi dove realmente fossi.

La sfida continuava e per avere una prova le ho chiesto di verificare il nome del mio fidanzato e il numero di telefono e di telefonargli chiedendogli di venire. Lei è stata quella che si è guadagnata la mia fiducia ed ha contribuito a ridurre l’estrema ansia e io credo che fosse per il modo in cui mi parlava.

L’assenza di consapevolezza

Quando sono stata piu’ sveglia e mi è stato detto che ero li’ già da piu’ di due settimane, che ero stata intubata e che le cose si stavano risolvendo, sono diventata piu’ confusa e arrabbiata.

Ero davvero cosi’ grave? Avevo relmente bisogno di essere intubata? Ero certa di non aver bisogno di essere ospedalizzata! L’hanno fatto per il loro tornaconto e ho chiesto a tutti di lasciarmi da sola.  Questo è uno scherzo e sono tutti d’accordo. Le montagne russe dell’impotenza, della confusione, della paura si sono presto trasformate in rabbia e volevo solo morire. Ero cosi’ risentita che volevo che tutti se ne andassero e mi lasciassero morire.

Mia sorella è venuta a trovarmi e mia ha chiesto se volessi che lei restasse:

La malattia che mi aveva portato in terapia intensiva nel 2006 era piu’ grave di questa, ma questa volta è stato differente. Questa volta è stata molto dura. Le allucinazioni sono state terribili, uniche, molto reali e molto negative. Nel 2006 le allucinazioni erano state poche e io ne ricordo solo tre. 

Questa volta è stato cosi’ terribile a causa dei farmaci?

Emozioni…

Frustrazione, risentimento, rabbia e depressione sono state le mie prime emozioni quando la “nebbia” ha iniziato ad abbandonarmi.

Le mie corde vocali erano danneggiate. La mia voce non aveva forza, piuttosto un piccolo sibilo e non riuscivo a parlare con nessuno , specialmente tramite il pulsante di chiamata delle infermiere. Sono stata alimentata tramite sonda ed i miei muscoli si erano letteralmente sciolti nel letto. Non avevo nè voce, nè muscoli. Non sapevo in quale corpo fossi.

A parte il mio meraviglioso fidanzato, sono stata fortunata che mia figlia di ventun anni é venuta a casa. E’ rimasta alcune notti con me in ospedale, mi accarezzava il viso e mi sistemava in modo che non potessi danneggiare i vari tubi. Mi ha sostenuto e mi ha impedito di infrangere le regole (bere liquidi)!

Si lamentava anche dei normali problemi dei giovani-adulti.

Ero pronta per essere dimessa, a mio parere, e ho fatto di tutto per dimostrarlo. L’unica che non ha voluto firmare le dimissioni è stata la logopedista.

La dimissione dalla terapia intensiva

Si giustificava dicendo che la mia deglutizione non aveva ripreso adeguatamente per poter essere dimessa. Ero troppo debole e non avevo la voce per replicare. Le ho chiesto ripetutamente se avesse letto la mia documentazione riguardo i miei problemi di deglutizione preesistenti e che ho sempre disfagia. Continuava a dire che non l’aveva ancora fatto – cosi’ frustrante. 

Non era li’ forse per aiutarmi? Mi ha chiesto perchè me ne volessi andare e io le ho risposto che non miglioro in ospedale e che la mia depressione stava peggiorando.

Appena mi sono un po’ ripresa mentalmente ho pressato cosi’ tanto che alla fine ha firmato per la rimozione della sonda gastrica.

Finalmente a casa…la PICS (Post Intensive Care Syndrome)

Sono cosi’ contenta di essere a casa, lavarmi fuori dall’ospedale, stare nel mio letto con i miei gatti. Ma queste sono state piccole gratificazioni.

La depressione, il risentimento e la confusione continuavano. La mia voce non era ancora tornata e il fatto che riuscissi a malapena a sollevare un piatto contribuiva al mio risentimento.

Mi sono state prescritte fisioterapia e logopedia per le mie corde vocali. Sebbene fornissero una sorta di “socializzazione” , posso dire che la terapia fisica è stata la chiave. Mi ha costretto a lavorare con un’altra persona, ha dato fiducia in se stessa e mi ha permesso di realizzare (per almeno mezz’ora) che le cose potevano andare molto peggio 

Riprendevo forza, la fiducia in me stessa stava aumentando e le cose andavano nel verso giusto.

Il fisioterapista mi ha motivato per muovermi fisicamente in maniera responsabile. Ho iniziato col fare piccole cose come guidare fino al negozio di alimentari o in farmacia. La mia voce è lentamente ritornata permettendomi di tornare a frequentare la terapia cognitiva e psicoterapia.

Le allucinazioni avevano realmente affetto la mia psiche. Nessuno puo’ capire finchè non prova. Avevo annotato quante piu’ allucinazioni potessi ricordare e avevo scarabocchiato alcune immagini. Ho consegnato tutto al mio terapista per darle l’idea di quanto fossi “incasinata”. Lo scrivere tutto quello che ho potuto è stato un vantaggio importante perchè in questo modo assumevo io il controllo piuttosto del contrario.

Assenza di ricordi

Ho chiesto alla mia famiglia di vedere tutti messaggi che si sono scambiati. Ho chiesto cosa dicessi, cosa facessi. Qualunque cosa per colmare quel vuoto .

Dopo circa due mesi i miei capelli hanno iniziato a cadere come durante il trattamento per il cancro. Questo non è stato di aiuto alla mia autostima e depressione. Averi veramente apprezzato che qualcuno mi avesse avvisato che questa cosa potesse accadere.

Benchè la nebbia nel mio cervello fosse iniziata a scomparire la mia memoria a breve termine ne è rimasta affetta. Non riesco a ricordare il Natale (due settimane prima del ricovero in terapia intensiva) e anche la mia vacanza in Europa fatta poco prima.

Quindi non sono sicura di quando potro’ dire “sono guarita”. La mia depressione sta peggiorando e i miei muscoli, la memoria, le abilità cognitive non stanno migliorando molto velocemente (dopo sette settimane). Non riavro’ indietro queste cose.

Non ho idea di chi fossi prima della terapia intensiva tranne che avevo programmato di lavorare e nuotare ancora. Mi sento diversa e vulnerabile. Mi sento costantemente imbarazzata riguardo cosa potrei aver detto o fatto, non solo verso I miei familiari, ma anche verso I curanti.

Le allucinazioni mi stanno ancora consumando e nessuno comprende. Recentemente ho sperimentato dei flashback di cose di cui non ricordavo.

C’è moltissima pressione (probabilmente auto imposta) per dire “è bellissimo essere viva, sono cosi’ fortunata e cosi’ grata”, ma per qualche ragione , questa esperienza di terapia intensiva, mi ha buttata giu’ troppo per poterlo affermare in modo autentico, anche se molte persone stanno peggio di me.

Quando sono molto giu’ mi viene in mente l’idea malata di tornare indietro. Il posto da cui avevo il desiderio di scappare e voglio tornarci?

La mancanza di aiuto per vivere il post terapia intensiva

Quello che credo mi avrebbe aiutato molto, in aggiunta alla fisioterapia e alla psico terapia, sarebbe stato del counseling familiare. Conversazioni intense con la famiglia (spiegazioni, follow up con anche opuscoli) su come affrontare le ripercussioni della terapia intensiva come ad esempio le disfunzioni cognitive, le allucinazioni, la perdita dei capelli, I flashback, le discrepanze fra realtà e memoria.

Il diario di terapia intensiva

Sarebbe anche un ottimo modo per riprendersi la lettura dei diari che i familiari, gli infermieri, e , se possibile, i pazienti scrivono anche con scarabocchi e disegni.

Anche i medici devono parlare in modo gentile, solidale, positivo, premuroso e, se necessario, essere dei “buoni e cattivi poliziotti” allo stesso tempo.

Uno dolce e incoraggiante e l’altro che mette in atto le procedure necessarie. Ovviamente sarebbe necessario un modo meno barbaro di trattenere i pazienti quando necessario. Questo diminuirebbe di sicuro la quantità e l’intensità delle allucinazioni.

Ho messo assieme cosi’ tanti scritti tra membri della mia famiglia, salvato le mie comunicazioni scritte, cosi’ come il mio registro e i miei disegni.

Domani incontrero’ il mio pneumologo in terpia intensiva per aiutarmi col metabolizzare questa esperienza, mettendo assieme tutti i pezzi del puzzle.

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Umanizzazione

Umanizzazione delle cure in terapia intensiva: di cosa si tratta

Umanizzazione delle cure in terapia intensiva: cosi’ semplice da essere difficile

Nel gennaio 2019 compare sulla rivista “Critical Care” questo articolo sull’umanizzazione delle cure in terapia intensiva.

E’ un articolo breve e semplice che mette in guardia gli operatori sanitari medici e infermieri sul rischio della disumanizzazione delle cure in terapia intensiva.

Medici e infermieri, leggendo questo articolo, non possono esimersi da un “esame di coscienza” e chiedersi se le cure erogate sono umanizzate o disumanizzate.

Pubblico l’articolo tradotto. A questo link è possibile scaricare l’articolo originale.

Buona lettura!!!


Umanizzare la terapia intensiva

AUTORI:

Michael E Wilson 1 2 3, Sarah Beesley 4 5 6, Amanda Grow 7, Eileen Rubin 8, Ramona O Hopkins 4 5 9, Negin Hajizadeh 10, Samuel M Brown 11 12 13 14 15

Introduzione

Nel tentativo di correggere i danni d’organo, i curanti potrebbero trascurare di considerare quello che sta vivendo il paziente: il sentirsi ad un passo dalla morte, il non essere in grado di parlare, l’essere spogliato, l’avere estranei che entrano nella stanza e allo stesso tempo fanno “cose” al proprio corpo senza spiegazione, l’avere tubi inseriti , l’avere le braccia contenute, il sentire una cacofonia di allarmi disorientanti di cui non si comprende il significato, l’essere scossi e stimolati- tutto mentre la famiglia è assente. Mettendo assieme questi fattori, i pazienti spesso non hanno memoria o comprensione di come sono finiti in questa terrificante situazione. L’encefalopatia rende difficoltoso per i pazienti dare un senso alla miriade di stimoli dolorosi. Pazienti e famiglie devono cedere tutto il controllo.

In tutto questo caos percepito, alcuni pazienti che sperimentano patologie gravi, possono subire una perdita di umanizzazione. Questa perdita di umanizzazione puo’ esprimersi in varie forme, includendo la perdita della personale identità, del controllo, del rispetto, della privacy, dei sistemi di supporto ed è riferita come una disumanizzazione. La disumanizzazione consiste nel trattare qualcuno come un oggetto, piuttosto che come una persona ed è spesso associata al mancato rispetto della dignità.

Che aspetto ha la disumanizzazione della terapia intensiva?

I pazienti di terapia intensiva sperimentano una devastante perdita di personale identità. Al posto di essere identificati coi loro nomi, personalità, interessi, famiglia e cultura, i pazienti sono ridotti al loro numero di stanza, alla loro patologia, o al trattamento che ricevono – per esempio: “512 l’infezione in risoluzione”. Le identità personali sono anche perse dalla biancheria standardizzata dell’ospedale (l’”abito dell’ospedale”), dall’incapacità di comunicare, dal delirium, dall’igiene compromessa, dall’assenza di occhiali o ausili per sentire. I pazienti perdono anche la loro capacità di controllare l’ambiente,  di governare le loro stesse azioni, di difendere se stessi – spesso aggravato dalla perdita di coscienza. Quando si relazionano con un paziente incosciente o che non puo’ parlare, i medici potrebbero entrare nella stanza del paziente senza presentarsi, spostare o aprire il camice del paziente e toccarlo senza preavvisarlo, parlare con l’infermiere riguardo le condizioni cliniche e lasciare la stanza del paziente senza dire una singola parola al paziente. I pazienti con coscienza alterata spesso riportano ricordi traumatici della loro esperienza in terapia intensiva e si sentono come se i loro corpi non fossero persino piu’ i loro. Inoltre, i pazienti spesso perdono le loro famiglie visto che sono accompagnati nelle sale d’attesa. In sostanza, la restrizione delle visite rimuove sistematicamente dal letto del paziente gli “esperti mondiali” di quel particolare paziente, oltre ad allontanare il principale sistema di supporto della maggior parte dei pazienti- il tutto nel momento di maggiore vulnerabilità delle loro vite.

Umanizzazione e disumanizzazione delle cure in terapia intensiva
Fig.1 Disumanizzazione e umanizzazione delle cure in terapia intensiva

Perchè accade la disumanizzazione dei pazienti nelle terapie intensive?

L’alto carico di lavoro e il burn out possono portare i membri del team di cura a diventare desensibilizzati agli aspetti umani delle malattie gravi. I regolamenti e le culture di molte terapia intensive (come la restrizione delle visite) promuovono la disumanizzazione prendendo ulteriormente il controllo  dai pazienti e le loro famiglie. Anche i modelli frammentati di erogazione delle cure (lavoro su turni) possono impedire ai medici di terapia intensiva di riconoscere i pazienti come persone.

I medici potrebbero non rendersi conto che i pazienti che appaiono incoscienti possono sentire e ricordare quanto stanno vivendo. Mentre i medici di terapia intensiva possono essere esperti nella conoscenza delle patologie gravi acute, pochi hanno fatto l’esperienza di essere pazienti di terapia intensiva o pensano attentamente cosa possa essere questa esperienza. Per quei curanti che sono stati anche pazienti di terapia intensiva, l’esperienza ha insegnato loro l’importanza della presenza della famiglia al posto letto, del tocco fisico come lo stringere una mano, le parole calme di spiegazione, sicurezza e supporto.

Come possiamo considerare l’umanité della persona nel letto?

Molte considerazioni possono migliorare il trattamento dei pazienti nelle terapie intensive.

Primo, raccomandiamo visite familiari centrate sul paziente – l’unica restrizione di routine dovrebbe essere guidata dalla richiesta del paziente. L’apertura alle visite sono associate ad una diminuzione dell’ansia, della PTSD, dell’agitazione, una diminuita durata del ricovero in terapia intensiva, una piu’ alta soddisfazione del paziente/famiglia, e una migliore sicurezza del paziente.

Secondo, raccomandiamo di parlare ai pazienti di terapia intensiva, anche se deliranti, comatosi o incapaci di parlare. Entrando nella stanza del paziente i curanti dovrebbero presentarsi spiegando il loro ruolo e cosa sta per accadere. Ad esempio un medico puo’ stringere la mano di un paziente e dire :”Buon giorno sig. Giovanni, sono il dott. Stuart, il viceprimario del nostro team di terapia intensiva. Sono qui per controllare il suo cuore ed i suoi polmoni. Dovrei spostare la camicia dal torace e ascoltare il suo cuore col mio stetoscopio”.  Strategie per riorientare i pazienti e spiegare cosa succede è associato a minor delirium, minore durata della ventilazione meccanica e minor uso di sedazione.

Terzo, raccomandiamo di ridurre al minimo gli effetti della coscienza alterata e della ridotta mobilità, incluso sforzi individuali per ridurre al minimo la sedazione, ridurre il delirium e promuovere mobilizzazione precoce e fisioterapia.

Quarto, raccomandiamo di imparare qualcosa sul paziente come persona. Cose come “get to know me board” (conoscimi a bordo) o fotografie della vita del paziente prima del ricovero possono aiutare i clinici a capire meglio il paziente come persona. Alcuni di noi iniziano gli incontri con la famiglia chiedendo “ Mi racconti qualcosa di lui come persona. Quali sono i migliori racconti che possono aiutarci a capire il sig./sig.ra come persona?”.

Implicazioni della disumanizzazione

Gli aspetti chiave della malattia dei pazienti, cosi’ come i comportamenti/attitudini del team dei curantI, contribuiscono alla disumanizzazione dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Il non trattare i pazienti come esseri umani puo’ procurare serie conseguenze per il benessere fisico e mentale dei pazienti, sia durante la fase acuta della malattia che durante il loro recupero molto tempo dopo. Quando i curanti non riescono a considerare le identità personali dei loro pazienti, c’è il rischio di potenziali pregiudizi nel modo in cui i medici eseguono una prognosi e nelle decisioni che riguardano la sospensione del supporto vitale. Lo sforzo di umanizzare la terapia intensiva puo’ avere benefici nel rafforzare l’atteggiamento del paziente e l’impegno per raggiungere il proprio benessere. Comprendere e affrontare i fattori, a tutti i livelli, che contribuiscono alla disumanizzazione della terapia intensiva, rappresentano aree significative e necessarie per l’indagine e l’intervento nei nostri sforzi per promuovere cure di alta qualità.

affiliazioni

  • 1Division of Pulmonary and Critical Care Medicine, Mayo Clinic, Rochester, MN, USA.
  • 2Robert D. and Patricia E. Kern Center for the Science of Health Care Delivery, Mayo Clinic, Rochester, MN, USA.
  • 3Biomedical Ethics Program, Mayo Clinic, Rochester, MN, USA.
  • 4Center for Humanizing Critical Care at Intermountain Healthcare, Murray, UT, USA.
  • 5Pulmonary and Critical Care Medicine, Intermountain Medical Center, Murray, UT, USA.
  • 6Pulmonary and Critical Care Medicine, University of Utah School of Medicine, Salt Lake City, UT, USA.
  • 7ICU Patient and Family Advisory Council, Intermountain Medical Center, Salt Lake City, USA.
  • 8ARDS Foundation, Northbrook, IL, USA.
  • 9Department of Psychology and Neuroscience, Brigham Young University, Provo, UT, USA.
  • 10Division of Pulmonary Critical Care Medicine, Zucker School of Medicine at Hofstra/Northwell, Manhasset, NY, USA.
  • 11Center for Humanizing Critical Care at Intermountain Healthcare, Murray, UT, USA. Samuel.brown@imail.org.
  • 12Pulmonary and Critical Care Medicine, Intermountain Medical Center, Murray, UT, USA. Samuel.brown@imail.org.
  • 13Pulmonary and Critical Care Medicine, University of Utah School of Medicine, Salt Lake City, UT, USA. Samuel.brown@imail.org.
  • 14Division of Medical Ethics and Humanities, University of Utah School of Medicine, Salt Lake City, UT, USA. Samuel.brown@imail.org.
  • 15Shock Trauma ICU, Intermountain Medical Center, Murray, UT, USA. Samuel.brown@imail.org.

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Il diario paziente

Il diario paziente di terapia intensiva: un giovane papà ricoverato per covid

Inizio di diario paziente

Si pubblicano le prime tre pagine di diario scritte da un infermiere di una terapia intensiva a un giovane paziente ricoverato per covid.


Prima pagina di diario paziente di terapia intensiva
Prima pagina del diario di terapia intensiva
Seconda pagina di diario di terapia intensiva
Seconda pagina di diario di terapia intensiva
Terza pagina di diario di terapia intensiva
Terza pagina di diario di terapia intensiva

Il diario paziente di terapia intensiva permette ai curanti di esprimere le proprie ansie e preoccupazioni. Si crea un legame….una sorta di alleanza terapeutica.

La scrittura del diario consente all’infermiere di “guardare il paziente” con occhi diversi, perchè prende consapevolezza della relazione.

Per conoscere meglio l’evidenza del diario paziente accedere alla pagina dedicata.

Per un’analisi della letteratura si suggerisce il seguente sito dedicato al diario paziente.

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Storie di terapia intensiva

Storie di terapia intensiva: la storia di Shara (prima parte)

Fra le storie di terapia intensiva riceviamo e pubblichiamo quella di Shara. Shara vive negli Stati Uniti ed ha subito vari ricoveri in terapia intensiva. L’ultimo ricovero è stato caratterizzato da un lungo periodo di delirium.

Shara, venuta a conoscere il progetto di “Postintensiva.it” ha deciso di condividere la sua storia di terapia intensiva arricchita di alcune foto. La sua testimonianza che è stata ovviamente tradotta in italiano.

Le storie di terapia intensiva sono spesso molto lunghe. Visto la lunghezza del racconto si è deciso di pubblicarlo in “due puntate”, con la possibilità di pubblicare commenti o domande al fine di aiutare quanti stanno vivendo o hanno vissuto la stessa esperienza.


Introduzione

Ho scritto queste righe dopo aver passato sette mesi in terapia intensiva… potrebbero quindi non avere alcun senso. Figuriamoci la cronologia.

Sono una donna di cinquant’anni e sono sopravvissuta a due tumori oltre ad altre importanti patologie conseguenza dei trattamenti per il cancro. Sembra quasi uno scherzo l’assenza, nella mia famiglia, di un anno senza interventi chirurgici o malattie importanti.

E’ l’umorismo della forca che mi fa andare avanti. Stavo iniziando a preoccuparmi perchè era ormai piu’ di un anno che non accadeva nulla di grave.

Il pronto soccorso

E’ il mio compleanno e ho iniziato ad avere tosse e mal di testa : il tipo di mal di testa che viene  quando uno piange molto.

Non ricordo con esattezza cosa mi ha portato in ambulatorio, probabilmente il sentirmi molto spossata. Comunque, per qualche ragione mi sono vestita normalmente.

Ho preso un appuntamento e mi sono recata in ambulatorio guidando. Mi furono rilevati I parametri vitali e mi è stato detto di recarmi immediatamente in pronto soccorso. “Sa come arrivarci?”…non ho neanche chiesto quale fosse il problema. A causa della mia storia clinica infatti i sanitari non riescono a capirlo durante la prima visita. Certamente so dove si trova il pronto soccorso: la mia casa lontano da casa.

“Li avviseremo che sta per arrivare”. Fantastico!!! Non dovro’ aspettare quattro ore per essere visitata. Ovviamente, quando sono arrivata, non c’era nessuno in attesa. “Cosi’ ha l’influenza!!! La receptionist mi ha detto che in ambulatorio è stato eseguito il test per Influenza A ed era risultato positivo. Devo essermi persa qualcosa… forse quando mi rilevavano I parametri vitali?

Prendo la stanza, mi vesto e aspetto…affamata e assetata chiedo di avere delle patatine e qualcosa da bere.

Pranzo compleanno Shara

La terapia intensiva

“Dobbiamo trasferirti in terapia intensiva”…L’ospedale “non invecchia mai”, sono sempre li’.

Come ho raccontato all’inizio sembra quasi uno scherzo che riguarda la mia famiglia. Sono stata interapia intensiva nel 2006 per una sepsi e per altre severe condizioni. Non avevo idea che questa volta sarebbe stata molto differente.

TANTI AUGURI A ME!!! Un viaggio in terapia intensiva e una vita intera di allucinazioni, deficit cognitivi e fisici.

All’inizio della degenza, una delle infermiere era molto simpatico e gentile e faceva delle battute divertenti riguardo il dramma di Gianni Versace che guardavo in TV (perchè non c’era nient’altro), mi raccontava di lei, aveva un odore gradevole.

Non avevo mai apprezzato cosi’ tanto il profumo “Estee Lauder Poison”. Lei mi faceva ridere con quel tipo di cinismo che leniva la mia paura che aumentava.

Dopo di che , e apparentemente, dopo essere stata intubata, ha iniziato a parlare con me con quello che presumo essere il “tono di voce della terapia intensiva”. Questo mi ha portato a scarabocchiare appunti ai “rapitori” come ….”non ho l’altzheimer” o “non sono sorda”.

In qualche modo ho fatto suonare l’allarme del mio letto mettendo giu’ una gamba e la mia nuova “dolce infermiera” mi ha informato: “non devi fare altro che rilassarti”.

Dopo aver fatto scattare nuovamente l’allarme ho iniziato ad avere cosi’ paura di lei che sono stata in grado di scarabocchiare che non volevo fare scattare l’allarme visto che lei stava montando la mia gabbia o qualunque cosa sembrasse.

Ovviamente questo ha aumentato la mia paranoia, isolamento, tristezza e la voglia disperata di scappare.

Il delirium

Ho iniziato ad inviare messaggi al mio fidanzato… del tipo: “ se non vieni immediatamente chiamo la polizia”, “devo andare a casa il prima possibile”.

Mi è stato ritirato il telefono e sono stata contenuta al letto.

Gli effetti dell’essere contenuta al letto ha sicuramente esacerbato l’estrema sensazione di terrore. Ricordo di aver allentato una delle cinghie contenitive, probabilmente piu’ di una volta. Chissà cosa stessi cercando di fare… sicuramente tentare di scappare.

Il “viaggio” è iniziato combattendo I rapitori, I trafficanti, essendo legati a un mezzo uomo e un mezzo robot, guardando una signora parzialmente fatta di torta che strisciava sul muro. Il viso di mio figlio come una applique al muro che cercava di ottenere le coordinate per salvarmi mentre lui istruiva I mie amici su come trovarmi.

Ho sentito I miei amici arrivare, un forte colpo di pistola e l’abbaiare di un cane. Ho sentito che I rapitori hanno sparato al cane. Io guardavo tutte le infemiere attorno al letto a cui ero legata che mi fissavano, si muovevano, mi indicavano dicendomi che puzzo.

Un rapitore uomo entrava e qualunque cosa facesse io cercavo violentemente di scappare e ricordo di sentire :“abbiamo una combattente qui” e mi spruzzava dopo barba o acqua di colonia.


Per inviare la tua storia di terapia intensiva alla sezione “storie di terapia intensiva” vai al form dei contatti

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Umanizzazione

Alterazioni sensoriali in terapia intensiva

Riceviamo, e pubblichiamo con piacere, il progetto di Matilde: una studentessa del corso di laurea di infermieristica.

Ha costruito una survey, da somministrare alle persone dimesse dalle terapie intensive, al fine di verificarne il vissuto riguardo luci, rumori, odori, sensazioni tattili che hanno “accompagnato” la persona durante la degenza.

Uno studio ed una attenzione all’ambiente e alle percezioni sensoriali delle persone ricoverate nelle terapie intensive dovrebbe essere uno degli aspetti principali da curare nell’ottica dell’umanizzazione della terapia intensiva.

Di seguito il link al questionario e una breve spiegazione di Matilde riguardo il razionale del suo progetto.

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSdFbZWmUig-BQ6xKX_j_7yhC–7IBT79O7oxf5jibFGroOwTQ/viewform?usp=sf_link


Le alterazioni sensoriali in terapia intensiva

L’ambiente della terapia intensiva è un mondo a sé; infatti, rispetto a tutti gli altri reparti che possiamo trovare in ospedale, la terapia intensiva ha alcune caratteristiche peculiari che possono causare una serie di problemi sensoriali nei pazienti che vi sono ricoverati (Arslan & Ozer, 2016).

Ci sono diversi fattori che possono portare ad un sovraccarico, ad una deprivazione sensoriale o alterazioni sensoriali in terapia intensiva tra cui, ad esempio, il rumore eccessivo causato dal personale sanitario e dai dispositivi tecnologici ed i frequenti interventi a cui sono sottoposti i pazienti, la mancanza di una sufficiente comunicazione, l’ esposizione continua agli stessi stimoli (monotonia sensoriale), l’isolamento sociale, l’ambiente/dintorni sconosciuto/i e nuovo/i per il paziente, l’assenza di privacy, interruzioni frequenti del sonno, l’immobilizzazione e l’assenza di luce diurna (Alasad, Tabar, & Ahmad, 2015) (McGuire, Basten, Ryan, & Gallagher, 2000) (Ozçetin & Hiçdurmaz, 2015).  A causa di tutti questi elementi, la sensoristasi, ovvero l’equilibrio nelle variazioni sensoriali, in questi pazienti viene meno. L’epserienza di un individuo in terapia intensiva può oscillare lungo un continuum, essendo quindi raramente solo privata o sovraccaricata di stimoli sensoriali. Come conseguenza uno (o più) dei 5 sensi può subire delle alterazioni, generando un impatto negativo non solo sul ricovero del soggetto, ma anche sul periodo post-dimissione (Black, McKenna, & Deeny, 1997).

Il ruolo degli infermieri

Gli infermieri rivestono un ruolo chiave nel manipolare l’ambiente per produrne uno terapeutico; sono infatti responsabili dell’identificazione dei problemi sensoriali dei pazienti e della prevenzione di questi.  Soltanto attraverso una valutazione regolare delle esigenze sensoriali dei pazienti e tramite l’utilizzo di approcci infermieristici adeguati è possibile identificare i problemi sensoriali dei pazienti e mettere in atto tutte le strategie per cercare di prevenirli (Alasad, Tabar, & Ahmad, 2015) (Ozçetin & Hiçdurmaz, 2015).

Considerando l’analisi della letteratura, il senso che risulta essere maggiormente stimolato in terapia intensiva è sicuramente l’udito: il rumore indesiderato in questo ambiente può infatti raggiungere livelli molto elevati a causa di allarmi, attività del personale e telefoni.

Per quanto riguarda l’olfatto invece, questo tende a sopravvivere (o addirittura rafforzarsi) per tutta la degenza in terapia intensiva.

Vista e gusto, al contrario, tendono a “spegnersi”.

Il tatto, infine, può essere considerato il senso più “importante” durante la degenza di una persona in terapia intensiva. Sebbene le sensazioni possano risultare vaghe e distanti, di solito il senso del tatto non scompare nemmeno quando il soggetto è molto debole. L’atto di toccare ed essere toccati diventa molto importante per questi pazienti: è una vera e propria esigenza e diventa in questi casi un’importante strumento di comunicazione tra infermiere e paziente (Ozçetin & Hiçdurmaz, 2015) (Uotinene, 2011).

Al fine di integrare e aggiungere dati qualitativi a ciò che è già disponibile in letteratura relativamente all’argomento, ho costruito questo questionario da somministrare direttamente a pazienti dimessi dalla Terapia Intensiva per indagare la loro prospettiva in merito, avendo vissuto l’esperienza in prima persona, e integrare nella pratica eventuali raccomandazioni per gli infermieri.

BIBLIOGRAFIA

Alasad, J. A., Tabar, N. A., & Ahmad, M. M. (2015). Patients’ experience of being in intensive care units. Journal of Critical Care , 30.

Arslan , S., & Ozer, N. (2016). Touching, music therapy and aromatherapy’s effect on the physiological situation of the patients in intensive care unit. International journal of caring science , 9 (3), 867-875.

Black, P., McKenna, H., & Deeny, P. (1997). A concept analysis of the sensoristrain experienced by intensive care patients. Intensive and critical care nursing , 13, 209-215.

McGuire, B. E., Basten, C. J., Ryan, C. J., & Gallagher, J. (2000). Intensive care unit syndrome. JAMA network , 160.

Ozçetin, Y. S., & Hiçdurmaz, D. (2015). Approaches of intensive care nurses towards sensory requirements of patients. Journal of clinical nursing , 24, 3186-3196.

Uotinene, J. (2011). Senses, bodily knowledge, and autoethnography: unbeknown knowledge from an ICU experience. Qualitative health research , 21, 1307-1315.



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Storie di terapia intensiva

Racconti di terapia intensiva: l’esperienza di Rebecca Abel

Fra i vari racconti di terapia intensiva c’è quello di Rebecca Abel. Rebecca è program manager al “Vanderbilt University Medical Center” di Nashville (Tennessee, USA) e si occupa principalmente del delirium in terapia intensiva.

Rebecca è stata anche paziente in un reparto di rianimazione. Ha portato la sua testimonianza di paziente al congresso dell’ “American Thoracic Society” nel 2019 a Dallas.

Ha accettato di condividere la sua storia su postintensiva.it che è stata tradotta fedelmente e che di seguito riportiamo…

Rebecca Abel racconta la sua esperienza di terapia intensiva
Clicca sull’immagine per visualizzare la testimonianza di Rebecca in pdf

Come tutto è iniziato in terapia intensiva

Quando ero incinta di 24 settimane, la mia ostetrica ha rilevato un aumento della pressione arteriosa e, alla ventisettesima settimana, avevo difficoltà a respirare. Dopo due notti in bianco in cui stavo molto male mi sono recata in una clinica.

L’infermiera ha immediatamente chiamato la mia ostetrica che mi ha inviato in ospedale per una pre eclampsia. Mi è stato somministrato del magnesio solfato per prevenire convulsioni o stroke. Le mie memorie non sono annebbiate, ma ricordo distintamente la mia ostetrica dirmi che il bambino avrebbe dovuto nascere quel fine settimana.

Mia figlia è nata tramite parto cesareo alla ventottesima settimana di gestazione e, con nostra gioia, ha pianto come un gattino quando l’hanno tirata fuori dalla mia pancia.

E’ stata quindi portata in terapia intensiva neonatale per essere stabilizzata. Tutto sembrava andare bene fino a quando ho creduto di vedere degli insetti camminare sul soffitto.

Ho iniziato ad avere panico e ho avuto difficoltà a respirare. I miei livelli di saturazione si abbassarono cosi’ tanto da richiedere il mio trasferimeno in terapia intensiva e mi è stata messa una Bi-Pap. Ho iniziato a tossire una schiuma rosata. Gli infermieri non facevano in tempo a mettermi una maschera pulita che io non l’avessi già riempita. Attorno a mezzanotte fui intubata. L’ultima cosa che ricordo fu che guardai mio marito piena di paura.

I ricordi e il dopo

Il successivo ricordo che ho è di una settimana piu’ tardi. Mentre ero intubata, il mio cervello aveva inventato la storia che avevo partorito, il mio bambino era stato dato in adozione ed io ero sedata e tenuta prigioniera. Avevo bisogno di chiamare mio marito.

Non appena l’infermiera arrivo, mi diede il telefono, e le mie paure svanirono.

Non so come spiegare come ci si sente ad aver perso tempo che è costellato di frammenti di realtà.

Ricordo il mio seno colmo di latte e mettere la mano di mia madre sul mio petto per ricordare a tutti che avevo appena partorito. Per l’allattamento mi portarono un tiralatte e mio marito e le infermiere mi tiravano il latte sette volte al giorno.

I miei familiari mi aiutarono a riempire il vuoto di quanto mi era accaduto, e di come cercassi di comunicare tramite linguaggio dei segni con mio marito per dirgli che lo amavo. Ad un certo punto iniziai a scarabocchiare messaggi illeggibili chiedendo se sarei sopravvissuta e come stava mia figlia.

Dopo essere stata dimessa mi è stata diagnosticata una cardiomiopatia ed edema polmonare periparto. Ho avuto molto poco tempo per mettere a fuoco le emozioni e quanto mi è accaduto. Ho iniziato a vivere la maternità con dodici settimane di anticipo, ed il mio mondo è stato un mulinello di visite in terapia intensiva neonatale, tirare il latte e lavorare mentre anche mi occupavo dei miei stessi bisogni. Guardando indietro, non so come ho fatto tutto, ma sono grata che dieci anni dopo posso condividere la mia storia per aiutare altri.